Piera Levi-Montalcini: l’erede spirituale di zia Rita

A otto anni dalla morte di Rita Levi-Montalcini, il suo percorso umano e scientifico resta la sua più grande eredità. Il suo esempio può essere d’ispirazione per i più giovani in un periodo così ricco di avversità, in cui la scienza ha assunto un ruolo determinante.
Il 30 dicembre 2012 ci lascia Rita Levi-Montalcini, Premio Nobel per la Medicina e Senatrice a vita della Repubblica Italiana. La scienziata lascia una grande eredità, che sua nipote e assistente Piera Levi-Montalcini, presidente dell’Associazione Levi-Montalcini ha raccolto ormai da tempo.
Nell’anniversario della morte di “zia Rita”, abbiamo intervistato Piera, sua erede spirituale.
Indice dei contenuti
- Quali sono gli obiettivi dell’Associazione Levi-Montalcini?
- Rita Levi-Montalcini è stata l’unica donna italiana a vincere il Premio Nobel in un campo scientifico; infatti, affrontando difficoltà e pregiudizi da parte di una società che a stento riconosceva alle donne le capacità per eccellere nelle scienze, rappresenta un esempio per molte giovani ragazze. Lei stessa si è laureata in ingegneria elettronica, una disciplina prevalentemente maschile soprattutto in passato. Quanto spazio hanno realmente le donne nella società attuale?
- Sia lei che sua zia Rita avete sempre avuto un rapporto speciale con i giovani. Perché è così importante la loro educazione?
- Quale è la situazione della ricerca tecnico-scientifica in Italia?
- Lei cerca di non far morire il ricordo sua Zia. Quali insegnamenti le ha lasciato la sua famiglia?
- La Rai ha dedicato una fiction alla storia di sua zia, interpretata da Elena Sofia Ricci, a cui lei ha partecipato come consulente alla sceneggiatura. In diverse occasioni ha voluto sottolineare la veridicità dell’episodio che narra di una giovane violinista, affetta da una grave patologia alla cornea. La fiction racconta cose realmente accadute? Quale messaggio può trasmettere?
«Profondamente commossa dal tuo desiderio di mantenere vivo il ricordo della nostra famiglia, ti considero mia erede spirituale».
(Dalla lettera di Rita Levi-Montalcini a Piera)
Quali sono gli obiettivi dell’Associazione Levi-Montalcini?

Gli obiettivi che ci prefiggiamo sono racchiusi nello statuto:
- offrire ai giovani, tramite centri di orientamento, il sostegno, l’assistenza, il supporto per la scelta degli studi e/o dell’attività lavorativa da intraprendere, incoraggiandoli a compiere scelte personali e professionali coerenti con le proprie aspirazioni e vocazioni e con la realtà sociale e produttiva;
- valorizzare la ‘Rete delle scuole Levi-Montalcini’, che unisce tutte le scuole e gli enti intitolati alla Zia, per diffondere l’importanza della cultura scientifica, soprattutto tra le ragazze;
- sostenere la ricerca scientifica, promuovendo studi e ricerche incentrate sul fattore di accrescimento delle fibre nervose (Nerve Growth Factor o NGF).
Rita Levi-Montalcini è stata l’unica donna italiana a vincere il Premio Nobel in un campo scientifico; infatti, affrontando difficoltà e pregiudizi da parte di una società che a stento riconosceva alle donne le capacità per eccellere nelle scienze, rappresenta un esempio per molte giovani ragazze. Lei stessa si è laureata in ingegneria elettronica, una disciplina prevalentemente maschile soprattutto in passato. Quanto spazio hanno realmente le donne nella società attuale?
Personalmente la mia è stata una scelta molto naturale. Le alterative ‘più facili’ potevano essere due: andare a lavorare con zia Rita oppure studiare architettura come mio padre. Ma non ero attirata dalla ricerca (cosa che in fondo rimpiango), e neppure mi sentivo tagliata per fare l’architetto, essendo conscia di non avere la vena artistica dei mio padre e zia Paola. Mi piacevano molto le materie scientifiche e tecniche applicate, così ho scelto ingegneria, seguendo le orme di nonno Adamo.
Per quanto riguarda il ruolo delle donne nella società, purtroppo per raggiungere una pur imperfetta parità il cammino è ancora lungo. Questo ho potuto constatarlo soprattutto nella mia esperienza politica. Per esempio a ogni proposta di candidatura di una donna, la domanda che veniva posta dai colleghi maschi era se la candidata fosse preparata e competente…domanda che non ho mai sentito fare se veniva proposto uno di loro. Il problema è che le donne accettano la provocazione e cominciano a snocciolare i propri ‘titoli’, invece di reagire. Ancora oggi i maschi si fidano di più l’uno dell’altro sapendo che sono più funzionali al sistema, mentre le donne sono non propense ad esserlo ‘a prescindere’. La donna ha un’impostazione mentale atavica, o indotta dall’educazione, diversa da quella del maschio. Le peculiarità dell’uno e dell’altra si devono integrare, non entrare in competizione o imitarsi l’un l’alta. Attualmente la società non aiuta ancora a sufficienza le donne a ricoprire posizioni di rilievo e a entrare nei settori scientifici. Ci sono stati tentativi, secondo me inutili e fuorvianti, come l’istituzione di borse di studio per le ragazze che si iscrivevano ad ingegneria, borsa di studio vincolata soltanto al genere. Le donne non sono una specie protetta e con iniziative simili si rischia una discriminazione al contrario.
Molto è cambiato negli ultimi cento anni da quando il nonno non vedeva di buon occhio che le sue figlie frequentassero l’Università, in quanto mondo quasi esclusivamente maschile, ma non siamo ancora arrivati a non fare, anche solo inconsciamente, delle distinzioni tra cosa si addica o meno a un ragazzo o a una ragazza. Bisogna analizzare ciò che ci circonda e far caso anche alle forme di discriminazione più subdole: negli spot televisivi pulizia della casa è affidata alle donne, le donne sono deputate all’educazione e alla cura dei figli, oppure…sono simbolo di desiderio. Tutto ciò è decisamente dannoso per la formazione dei bambini e delle bambine, che assorbono e fanno propri stereotipi che perpetuano pregiudizi inaccettabili.
“La donna è stata bloccata per secoli. Quando ha accesso alla cultura è come un’affamata. E il cibo è molto più utile a chi è affamato rispetto a chi è già saturo.” (Rita Levi-Montalcini)
Sia lei che sua zia Rita avete sempre avuto un rapporto speciale con i giovani. Perché è così importante la loro educazione?
L’attenzione ai più giovani è innata in ogni società, perché ne rappresentano il futuro. Le società più attente educano i bambini in modo molto attento, trasmettendo loro i saperi. Purtroppo stiamo perdendo valori importanti, come la parola e il dialogo, ora non si parla più con i genitori o con i nonni. Loro ci raccontavano esperienze sia positive che negative, episodi di vita vissuta, momenti tragici come le guerre o le epidemie. Oggi i giovani (e non solo loro) sono molto più attratti da Whatsapp, dai videogiochi e da assurdi youtuber. Manca il dialogo, gli adulti preferiscono non parlare e i più giovani non sono interessati a chiedere. Ecco perché bisogna cercare di stimolare il loro interesse, cercando di ottenere la loro attenzione. Mi viene in mente Liliana Segre, che si è sempre impegnata a raccontare ai giovani ciò che ha vissuto, per insegnare loro a conoscere gli errori/orrori della storia sperando che sia un monito per non ripeterli.
Bisogna incuriosire i più giovani anche su ciò che sembra ovvio e scontato; il mio mantra è invitarli, ogni volta che prendono in mano un oggetto, a interrogarsi su come sia nato, perché sia nato e se sia migliorabile: il famoso ‘elogio dell’imperfezione’ inteso come opportunità che ci è data di perfezionare tutto ciò che è perfettibile.
Quale è la situazione della ricerca tecnico-scientifica in Italia?
Io tendo a fare una distinzione molto netta tra la ricerca farmacologica e quella che una volta si chiamava ricerca di base. Questa gode di tutte le mie simpatie: non è legata al profitto, viaggia senza vincoli. Purtroppo i ricercatori non sono liberi di spaziare, perché devono preoccuparsi costantemente di reperire finanziamenti e ovviamente è più facile ottenerli se chi finanzia vede in prospettiva un ritorno economico. Pur capendo che finché non si scopre la causa di una malattia sia necessario curarla, prediligo la ricerca che tenta di capire perché ci si ammala.
Lei cerca di non far morire il ricordo sua Zia. Quali insegnamenti le ha lasciato la sua famiglia?
Zia Rita e in generale tutta la mia famiglia mi hanno insegnato a pormi degli obiettivi e a perseverare per raggiungerli senza demordere anche di fronte a qualche risultato negativo: dall’errore deve derivare l’analisi e la correzione. La tenacia è una dote di famiglia. Ovviamente voglio continuare a far conoscere la Zia, ma cerco di far conoscere anche mio padre e zia Paola. Sia mio padre come architetto, disegnatore e scultore che zia Paola come artista hanno lasciato, ciascuno nel proprio campo, un segno importante. Le case progettate da mio padre, i suoi arredi di interni, le sue sculture, i suoi disegni e le sue caricature sono oggetto di molti studi, le opere di zia Paola, sorella gemella di zia Rita, sono esposte in importanti musei e sono state presentate in numerose mostre personali e/o collettive.
Mi sento in dovere di tramandare ciò che loro hanno lasciato, perché credo che faccia parte della cultura del XX secolo. Una volta un bambino mi ha chiesto se sono invidiosa di loro, gli ho risposto che sono la loro prima e più grande ammiratrice, ma non provo invidia: alcune doti/capacità sono genetiche, meglio valorizzare le proprie che invidiare quelle degli altri; ognuno ha le proprie peculiarità e ciò apre le porte alla bellezza della diversità e alla possibilità di creare team ‘olistici’.
La Rai ha dedicato una fiction alla storia di sua zia, interpretata da Elena Sofia Ricci, a cui lei ha partecipato come consulente alla sceneggiatura. In diverse occasioni ha voluto sottolineare la veridicità dell’episodio che narra di una giovane violinista, affetta da una grave patologia alla cornea. La fiction racconta cose realmente accadute? Quale messaggio può trasmettere?
La storia è stata romanzata, ma i fatti sono realmente accaduti. La stessa Elena Sofia Ricci ha ben rappresentato i lati salienti del carattere di zia Rita e, nonostante agli inizi nutrisse il timore di non essere all’altezza, direi che ci è riuscita egregiamente. L’episodio, che narra di una ragazza che rischia la cecità, vuol far capire a chi non è del settore come la ricerca di base sia la pietra miliare per la ricerca farmacologica e farmaceutica. Essa lascia al ricercatore una grande libertà: la possibilità di verificare le più diverse ipotesi su tutto ciò che ancora non sappiamo. Direi che per quanto riguarda il corpo umano, macchina chimica di assoluta perfezione, di risposte non date sui suoi mille ‘ingranaggi’ ce ne sono tantissime. A trovarne qualcuna può aiutarci l’evolversi della tecnologia che permette di poter verificare/simulare ipotesi e vedere cose fino al giorno prima inimmaginabili. Per questo anche le ‘verità assiomatiche’, devono essere rimesse in discussione come ha fatto zia Rita confutando le certezze di allora sul funzionamento del nostro cervello. La fiction mette in risalto proprio come la ricerca, il ripensare, lo studiare, l’approfondire, il continuare a farsi domande, la tenacia e il perseverare siano indispensabili per il progresso della scienza e insegna anche che l’assenza di risultati non deve demoralizzare, ma deve essere uno stimolo a riesaminare il processo e a cercare nuove strade. In ogni caso, sosteneva zia Rita, anche un risultato negativo è utile per il progredire della ricerca: evita ad altri ricercatori di imboccare vicoli ciechi a meno che non cambino i presupposti, magari grazie all’evoluzione degli strumenti a disposizione. L’episodio mette anche in risalto come zia Rita, coadiuvata da ricercatori come lei appassionati del loro lavoro, non abbia esitato a chiedere e ottenere di usare l’NGF come cura compassionevole una volta raggiunta la certezza della sua efficacia. L’episodio riportato nella fiction è accaduto dopo l’assegnazione del Nobel e mostra come la Zia abbia continuato a lavorare sempre con grande impegno e come l’età, se la salute ti assiste, non sia un fattore negativo: il cervello, se debitamente tenuto in esercizio, può continuare a partorire, coadiuvato dall’esperienza, idee e ragionamenti geniali. Infatti nel suo saggio “L’asso nella manica a brandelli” lei sottolinea proprio come il fisico possa cedere al passare del tempo, mentre si possa continuare ad allenare il cervello.
“È un pregiudizio da combattere l’idea che le capacità intellettive declinino con il passare degli anni […] Il cervello può non invecchiare con il corpo. È questo il nostro asso nella manica a brandello, come dice il titolo di una poesia di William Butler Yeats (1865-1939), dove l’anziano è paragonato ad un ‘abito a brandelli’. Sì, a brandelli forse nel fisico, ma da quella ‘manica’ consunta e sdrucita bisogna tirare fuori ‘l’asso’, la carta vincente.”
In copertina Rita e Piera Levi-Montalcini